Lunedì, 23 Dicembre 2024

Crescere e riscoprirsi napoletani a Londra

Joseph è nato a Napoli ma è cresciuto a Londra. «Avevo appena dieci giorni - racconta in un italiano privo della minima inflessione inglese - quando i miei genitori che sono entrambi napoletani e già vivevano qui mi hanno portato in Inghilterra». Ha compiuto 18 anni ad agosto e ha sempre vissuto nella capitale britannica, continuando però a intrattenere un rapporto intenso con l’identità napoletana e la città dove sogna di venire a vivere fra qualche anno.

La questione delle identità multiple trova nuovo alimento al tempo della globalizzazione, di un mondo rimpicciolito dai trasporti low cost e dalle tecnologie della comunicazione. A cavallo degli anni Ottanta, nel triennio della mia prima esperienza di vita a Londra, l’Italia era un posto remoto. La distanza la misuravi in giorni più che in ore perché ci andavi in treno. Solitamente, via Amsterdam e poi una notte di traghetto. Oppure la via più breve che passava da Ostenda, attraversava il canale della Manica e finiva dritta davanti alle bianche scogliere di Dover che comparivano all’orizzonte all’improvviso nella nebbia dell’alba.

L’aereo era un privilegio sconosciuto alla grande maggioranza delle persone. L’unico mezzo di comunicazione rapido erano le iconiche cabine telefoniche rosse che allora non erano soltanto una residuale attrazione turistica, ma ti bastava sollevare la cornetta perché il segnale ti apparisse alieno. Non il rassicurante e ritmato tu-tu al quale eri abituato, ma un suono monocorde e continuo che si interrompeva solo quando, dopo aver composto il numero, iniziava la lunga attesa al termine della quale squillava un telefono di casa duemila chilometri più a sud. E ogni volta che partiva il primo squillo e ti rispondeva una voce metallica e familiare, che ti restituiva tutto il senso della distanza, ti sembrava di aver assistito a un sortilegio prodigioso dall’esito incerto.

Il cibo italiano era raro. Lo trovavi a Clerkenwell, dove era nata la prima Little Italy londinese e dove ancora oggi c’è la St Peter's Church, la chiesa di San Pietro, dove dal 1880 la messa si fa in italiano. Lo trovavi a Holborn, dove i figli di quegli italiani si erano trasferiti avvicinandosi al centro di Londra. Lo trovavi infine a Soho, che quelli del nord avevano trasformato nella seconda Little Italy nel cuore della città.

Oggi invece il cibo italiano lo trovi ovunque e gli italiani si sono dispersi nei quartieri di Londra. Entri nei supermercati e trovi la mozzarella di bufala, la pasta, il sugo, il prosciutto, i salumi, il parmigiano, il gorgonzola, il vino e molto altro ancora. Accendi la tv e puoi guardare quella italiana. E poi ci sono i cellulari, le app di messagistica, i social. L’Italia che quarant’anni fa diventava un luogo degli affetti a molte miglia di mare, oggi è un’altra casa a portata di mano immateriale. Incastrata fra i mattoni rossi delle villette bifamiliari.

Joseph è cresciuto così. Con addosso la maglia del Napoli e la tv satellitare italiana, YouTube e lo streaming, i social, ma andando a scuola e vivendo a Londra. Perciò parla inglese, italiano e napoletano da madrelingua. Non è scontato quando si cresce in un altro paese, perché i pezzi di un’identità multipla talvolta possono perfino entrare in conflitto, diventando reciprocamente un ostacolo per l’apprendimento. Per lui è andata però diversamente ed è stupefacente vederlo alternare i tre idiomi con una dimestichezza tanto naturale da provocare una benevola ma feroce invidia a chi, come me, un’altra lingua ha dovuto impararla in età adulta portandosi dietro la permanenza ostinata dell’accento spaghetti English.

In realtà, Joseph di lingue ne parla quattro includendo il MLE. Quel Multicultural London English noto anche come Urban British English che è l’idioma prevalente dei giovani londinesi e, nelle sue varianti geografiche, delle altre grandi città inglesi. Il MLE è la lingua che parlano molti personaggi di Top Boy, la serie di culto arrivata quest’anno all’ultima conclusiva stagione che è una sorta di Gomorra londinese, anche se è nata prima di Gomorra.

Partendo da una solida base di patois giamaicano, di cui mantiene soprattutto la pronuncia e la cadenza, il Multicultural London English accoglie parole di altre lingue e riflette la complessità della composizione etnica di Londra. È diventato la variante egemone tra i ragazzi, col cockney in forte regresso nella capitale britannica ma trapiantato altrove, in contee che confinano con la capitale britannica come l’Essex e l’Hertfordshire. È singolare osservare che mentre un inglese di seconda generazione di quaranta o cinquant’anni parla con l’accento cockney, oggi un inglese bianco figli di inglesi ha l’accento da ragazzo cattivo di Top Boy.

Joseph inizia l’asilo a tre anni nel 2008 senza conoscere l’inglese, ma ha una maestra italiana di Palermo che lo aiuta nei primi mesi. «A casa ovviamente i miei genitori parlavano napoletano e italiano, ma a tre anni sei una spugna, assorbi tutto velocemente e perciò imparare l’inglese partendo dal contatto con gli altri bambini fu rapido, semplice e naturale. Da quando mi ricordo, ho sempre saputo parlare naturalmente le lingue che mi servivano per comunicare. Tanto in famiglia, che a scuola e con gli amici».

«Crescere in un paese diverso da quello dei tuoi genitori è una cosa particolare - continua a spiegare - ti senti sempre con un piede dentro e un piede fuori dalla tua cultura. Sei uno di loro, ma allo stesso tempo ti senti diverso da loro. In casa ci sono la lingua, le tradizioni, il cibo, le canzoni, i film dei tuoi genitori. Fuori c’è un universo completamente diverso, ma cresci abituandoti a entrambe le cose. È un’esperienza interessante che ti arricchisce, ma per certi aspetti anche complicata e contraddittoria».

Resta comunque una bivalenza non priva di attriti. «Da bambino per esempio simpatizzavo per il Chelsea perché mi piaceva Drogba, ma comunque dicevo di essere tifoso del Napoli come la mia famiglia. Quando spiegavo che la mia squadra del cuore era italiana, l’assonanza soprattutto nella pronuncia londinese fra Naples e nipples, che in inglese vuol dire capezzoli, faceva sempre divertire i miei amici di infanzia. Un classico sfottò da bambini che faceva sorridere anche me perché in napoletano ‘e nippoli sono le palline di lana che si formano sui maglioni vecchi, o nell’ombelico. Ho letto poi da qualche parte che il termine napoletano verrebbe proprio dall’inglese, portato dalle truppe alleate alla fine della Seconda guerra mondiale».

Dalle sue parole emerge il tema del sé percepito in una certa misura come altro rispetto al contesto in cui si vive. «Nella mia classe della Primary School, alla Harris Boys Academy nell’area di East Dulwich nel Sud-Est di Londra, ero l’unico italiano. C’erano bambini della working class bianca inglese, ma soprattutto tanti giamaicani e un albanese. Quest’ultimo era l’unico che come me seguiva il proprio campionato e poco il calcio inglese. Questo ci faceva sentire orgogliosamente fieri delle nostre rispettive origini. Era una cosa da noi contro gli inglesi, infatti tifavamo contro l’Inghilterra anche quando affrontava altre squadre. Se poi l’Inghilterra giocava contro l’Italia, non c’era proprio partita perché io mi sono sempre sentito italiano. Ho goduto quando abbiamo vinto gli Europei a Wembley».

Nel corso del tempo la sua relazione con il paese dove ha sempre vissuto è diventata però più serena e matura. «Crescendo, il mio rapporto con l’Inghilterra è cambiato. È diventato meno conflittuale, perché alla fine sono cresciuto qui e ne sono anche orgoglioso. Gli inglesi sono bizzarri, molto educati, rispettosi, ti aiutano ma forse mai extra mile, senza andare oltre la formalità». È difficile valutare quanto le sue parole siano frutto di un bias culturale e quanto corrispondano invece genericamente alle caratteristiche dei fantomatici inglesi di cui Joseph parla, considerando che anche lui di fatto è inglese. Lo sarà presto anche come passaporto, con la doppia cittadinanza che avrebbe potuto già ottenere quando ha compiuto sedici anni.

«Escludendo qualche piccolo episodio - prova a chiarire, quando gli spiego i miei dubbi - non ho mai percepito razzismo nei miei confronti. Del resto, la metà delle persone che vivono a Londra non sono nate qui, siamo una città di emigranti, però a volte può succedere di cogliere qualche sfumatura di quello che viene chiamato casual racism. Una barriera quasi impercettibile che però tu avverti a pelle, della quale sei sicuro ma che faresti fatica a spiegare e dimostrare. Però l’identità italiana è anche molto apprezzata, lo stile, il cibo, la moda, le macchine. Gli inglesi considerano cool l’Italia e gli italiani, molto più che in passato».

Emerge anche la consapevolezza da parte sua che in fondo a Napoli ci è sempre venuto solo in vacanza e quindi il rischio di idealizzarla è dietro l’angolo. «Però voglio provare a vivere a Napoli fra qualche anno. Mi piace come si vive lì, la socialità dei miei coetanei, il radunarsi nelle piazze, sto convincendo anche il mio amico Mario».

Anche Mario è nato a Londra e ha origini napoletane. Di un anno più grande di Joseph e suo amico da sempre. «Sua madre però è nata qui, anche se di famiglia napoletana. Forse è per questo - azzarda Joseph - che lui si sente più inglese di me. Ha frequentato la Kingsdale, una scuola dove vanno tutti i ragazzi di passaporto britannico della zona, ha sempre avuto amici British, si veste inglese, da anni va a vedere il Chelsea che è la squadra più seguita dove viviamo, insieme al Millwall che invece è geograficamente il local club». Anche Mario però non è sfuggito al richiamo della napoletanità, qualsiasi cosa essa sia.

La molla scatta a Scalea nell’estate del 2020. È la prima vacanza che lui e Joseph fanno insieme. È nella località costiera del nord della Calabria, tradizionale meta estiva di napoletani, che parte il processo di riscoperta. Mario rispolvera i termini di suo padre e se ne appropria seppur con un marcato accento inglese, provando ad acquisire una dimestichezza attiva con una lingua che ha sempre capito ma mai parlato. Inizia ad appassionarsi al Napoli, guarda le partite, comincia a tifare e rivendica radici che erano rimaste lì da qualche parte sopite nel corso della sua vita giovane.

La foto che li ritrae in piazza a Londra a festeggiare lo scudetto del Napoli e accompagna questo pezzo suggella un percorso che intreccia altre storie di quelli che crescono, si riscoprono o restano ostinatamente napoletani dopo essersi trasferiti in una città che comunque sentono come una seconda casa. Magari ve ne racconto qualcun’altra la prossima volta.

Rosario Dello Iacovo
Author: Rosario Dello Iacovo
Napoletano, ha vissuto per oltre dieci anni a Londra e a lungo a Milano. Organizzatore di eventi, giornalista pubblicista, esperto di social media, autore di biografie musicali.

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