Non saremo mai una squadra comune
Non sarò mai un uomo comune, diceva di sé Diego a Gianni Minà. E Napoli, che a Diego somiglia in quanto le divinità non scelgono a caso, non sarà mai né una squadra, né una città comune.
Siamo esagerati, barocchi, cinematografici, letterari, sempre, in tutte le nostre esternazioni. Forse per il fuoco del vulcano e l’acqua salata del mare, forse perché nonostante tutte le dominazioni e le culture siamo rimasti greci, e tutto quello che siamo e che facciamo è sempre omerico, tragico, comico, epico. Anche tutto insieme.
Prendi questo Coso, ad esempio. Ci siamo andati vicini più di una volta negli ultimi anni, sicuramente un odore così intenso di Coso era nell’aria nel 2018. Il 22 aprile, allo Juventus Stadium, KK salta come un angelo e fermo in aria segna un gol che è diventato leggenda. “Un gol di testa di Koulibaly al 90', su corner battuto da Callejon, stende la Juventus e riapre il campionato”, così scrissero i giornali, “riapre il campionato” e noi ci credemmo, ci volevamo credere, e la delusione per quel Coso scippato poi ci restò in gola.
Il Coso di oggi, che è a un passo da noi, abbiamo cominciato a riprendercelo da quel giorno, tutto è stato funzionale a quello, un processo faticoso ma glorioso, come tutte le imprese che valga la pena raccontare. E che è culminato in quella stessa porta, davanti alla stessa curva, al 93’, quasi allo stesso minuto, con il gol di un ragazzo entrato da una manciata di secondi. Ha il sapore del karma, del cerchio perfetto che si chiude, della giustizia umana e divina, della divinità omerica che interviene e sussurra all’orecchio di Spalletti: «Metti Raspadori». Ha il sapore del lieto fine, finalmente.
Come cinque anni fa la città è esplosa, ma stavolta siamo già dipinti di azzurro perché da gennaio vinciamo talmente tanto e talmente bene e siamo talmente belli che quando abbiamo perso eravamo devastati. Mentre scrivo abbiamo 17 punti di vantaggio sulla seconda. Diciassette. Sempre esagerati, ve l’ho detto.
Ieri passeggiavo per il centro, ho attraversato mezza Napoli. Ho visto striscioni colorati, bandiere a tutti i balconi (tranne a via dei Mille, non lo so perché, mi informerò. Anzi, se sapete perché a via dei Mille pare di stare a Lugano fatemi sapere, grazie), sagome dei calciatori sulle scalinate, nei bar, nelle pasticcerie. Io la mattina prendo il caffè con un Osimehn a grandezza naturale, spero non lo toglieranno mai perché mi dà sicurezza. Il nostro balcone al primo piano è il fulcro di una ragnatela azzurra. Mia sorella lo mette al settimo piano, Come diavolo fai a metterlo dall’altra parte? Le ho chiesto. L’altro è un vigile del fuoco, se lo vede lui. Comunque, dicevo. Camminavo nell’azzurro che più azzurro non si può, nel blu dipinto di blu, e pensavo, ma che ne sanno nelle città dove hanno due squadre? Dove entri in un bar e non sai di cosa stanno parlando? Ma che ne sanno nelle città dove vincono un campionato ogni tre, quattro anni, che poi alla fine non sembrano tutti uguali? No?
Pensavo ai bambini. Bimbi con la maglia di Kim, di Kvara, di Osimehn. Ma anche di Mertens, di Hamsik, di Callejon, perché chi ama non dimentica e in qualche modo questo Coso è anche loro. Pensavo ai bambini, è a loro che stiamo raccontando la favola più bella di questa città, la stessa che ho sentito io quando avevo sette anni. La favola dell’amore, dell’orgoglio, del riscatto.
Non proprio la stessa di quando avevo sette anni e guardavo il Vesuvio e la città impazziva, è vero. Quello era il Napoli di Diego. Questo lo ricorderemo come? Il Napoli di De Laurentiis? Sì, certo, ma non solo. Spalletti? Forse sì, ma sarebbe riduttivo. Il Napoli di Osimehn? No, no. Non è di uno solo, è di tanti. Ed è il più bello che potessimo raccontare.
Manca poco, pochissimo. I conti ora li so fare persino io, se sabato vinciamo e domenica la Lazio perde o pareggia è fatta. Cosa succederà? Non lo immagina nessuno. Perché siamo esagerati, barocchi, cinematografici, letterari, omerici, epici. E bellissimi.