Napoli e lo scudetto: “nun succer, ma si succer...”

A Napoli, in questi giorni, c’è più ansia che turisti — e non era facile. La città è in fermento per un possibile scudetto, e come ogni cosa a Napoli, anche questo non è semplice entusiasmo: è un rito collettivo, una cerimonia sacra fatta di scaramanzie, formazioni da non toccare e venditori abusivi che hanno già messo le bandiere tre dieci euro.
Perché Napoli è la città della scaramanzia, quella vera, non da discount. Non è che puoi mettere le bandiere azzurre ovunque come se niente fosse. Non vi fa un certo effetto vederle già in giro? Non sarebbe il caso di cacciare vuvuzela e bandiere dopo, a scudetto preso, così, per ristabilire l’ordine cosmico anti-iella?
Qui c’è gente che si mette ancora gli stessi calzini della domenica in cui abbiamo battuto la Juve 3-1 nel ‘90.
C’è chi parcheggia esattamente nello stesso posto da tre mesi perché “non si sa mai”, chi ha già organizzato il piano ferie per la partita, e chi ha già annullato — per quel giorno — vacanze, matrimoni, battesimi, visite, gite, pranzi, cene, festival, concerti. Venerdì 23 maggio, Napoli non c’è. Non risponde. Non classificata.
Da Posillipo alla Sanità, da Afragola a Giugliano, passando per i tanti napoletani sparsi per il mondo, tutti si stanno preparando. C’è chi pulisce i balconi per appendere striscioni (possibilmente nuovi, si spera), chi sistema il motorino per il corteo che “forse” ci sarà, chi prega Santo Maradona, chi studia la viabilità ordinaria per organizzare il tour post partita, chi noleggia camion per ballarci sopra che manco il Carnevale di Rio e chi cerca esorcisti che tengano buoni i criaturi, perché per novanta minuti pieni ci devono fare stare quieti.
E mentre i festoni dell’ultimo scudetto del 2023 pendono ancora, tristemente sfilacciati come bandiere post-apocalittiche, ancora si spera in un miracolo estetico: che almeno stavolta le decorazioni siano meno brutte e meno tossiche. Va bene tutto, ma l’ambiente ringrazia se la festa non sembra la sagra della plastica: questi fili appesi da due anni, ormai gialli di smog, non si possono più guardare.
Non sappiamo cosa accadrà venerdì — e, come dicono tutti in dialetto sottovoce — “nun succer, ma si succer...”prepariamoci bene. Perché è in quel “se” che si nasconde l’anima dei partenopei, dei tifosi, della città: il grande “se” sospeso tra sogno e superstizione, tra la certezza che ce lo meritiamo e il terrore di dirlo ad alta voce.
Che poi, alla fine, al di là dei gol, dei cori, delle trombette e dei fuochi d’artificio, quella che ci auguriamo è una festa vera. Di amore, di sport, di umanità. Una di quelle cose che solo Napoli sa fare, con il cuore grande, il panaro pronto e la lacrimuccia che scende anche al più ruvido dei tifosi.
Con la scritta “Cosa vi siete persi” fuori al cimitero di Poggioreale.
Una città che balla, che guarda il cielo e che sa trasformare uno scudetto in una grande festa dove tutto il mondo può ritrovarsi, tifosi o no.
Ora scusate, vado a calmare mio figlio Gennarino, c’ha otto anni e sta urlando dal balcone “Intermerda”. Che poi chiamano gli assistenti sociali.