Martedì, 24 Dicembre 2024

Accadrà ancora, non bisogna chiedersi se, ma quando

Quello che è successo a Giambattista Cutolo accadrà ancora. Lo scrivo chiedendo scusa per l’asprezza delle mie parole ai genitori e alle sorelle, ai suoi amici, a tutti quelli gli volevano bene, a chi spera che la sua morte tragica sia un punto di svolta.

Non è cinismo e neanche rassegnazione. È realismo, mentre il chiacchiericcio si rincorre con la stessa sterile veemenza di ogni volta, in una città e in un’epoca che avrebbero bisogno di una rivoluzione vera, non certo di parole. Di qualcosa di più concreto dell’eterno dibattito ammuffito fra il fuitevenne male interpretato di Eduardo e il restate, seppur accorato e sincero, che tocca stavolta all’arcivescovo di Napoli Domenico Battaglia.

Accadrà ancora perché non c’è nessuna volontà di intervenire sulle cause, limitandosi a operazioni cosmetiche di facciata funzionali al consenso politico, non certo ad affrontare il problema alla radice. Intervenire sulle cause vorrebbe dire cambiare radicalmente la nostra società, destinare risorse agli ultimi sottraendole ai primi. Una direzione esattamente opposta a quella intrapresa dal governo Meloni che cancella il Reddito di cittadinanza senza offrire lavoro e si oppone al Salario minimo perché è il governo degli imprenditori che pagano tre o quattro euro l’ora.

Accadrà ancora come succede con una macabra e ricorrente frequenza da almeno 40 anni a giovani e giovanissimi a Napoli. Per una vendetta traversale, uno scambio di persona, un proiettile vagante. Come Maurizio Estate che nel 1993 aveva 23 anni, quando fu ammazzato da un 17enne per aver impedito il furto di un orologio di un cliente dell’autolavaggio di suo padre. In una stesa come Genny Cesarano a 17 anni alla Sanità il 6 settembre del 2015, come Maikol Giuseppe Russo morto a 26 anni tre mesi dopo in circostanze simili a Forcella. Freddato da un poliziotto fuori servizio a soli 15 anni mentre tenta una rapina come Ugo Russo a via Duomo nel 2020.

Accadrà, possiamo solo sperare che avvenga con un intervallo di tempo più lungo di quello trascorso fra l’omicidio del 18enne Francesco Pio Maimone, avvenuto a marzo di quest’anno, e quello di Giò Giò. Così chiamavano i suoi amici il 24enne musicista della Scarlatti Young Orchestra ucciso all’alba del 31 agosto dai colpi di pistola di un sedicenne dei Quartieri spagnoli.

Chiunque di noi sia cresciuto a Napoli ne ha incontrati di ragazzi come quello che ha ammazzato Giò Giò. Bastava uno sguardo per riconoscerli già quando eravamo bambini. Una varietà di napoletano dal tono greve che risuonava immediatamente diversa e più minacciosa da quella pur popolare e schietta che parlavamo noi. La postura del corpo a rivelare un’aggressività sempre sul punto di esplodere. L’attitudine bellicosa di chi esce di casa per prendersela con qualcuno.

Nel quartiere popolare dove sono cresciuto, e dove la periferia di allora saturava gli spazi vuoti fra piazza Carlo III e Secondigliano prima di mangiarsi i comuni circostanti, ce n’erano tanti. Erano gli anni Settanta e una linea di confine divideva netta noi, figli di operai delle fabbriche che allora si susseguivano numerose, lungo viale Umberto Maddalena e le zone circostanti, da loro che erano ragazzi di strada, figli di ex ragazzi di strada.

‘E guagliuni ‘e miez’a via facevano paura. Era meglio levare occasione. Si portavano dentro la rabbia di famiglie sbandate, padri e madri in galera, fratelli pregiudicati, povertà intervallata da sporadiche ma clamorose incursioni nel mondo di un lusso a cui noi non avremmo mai avuto accesso. Lasciavano presto la scuola. Se ci venivano, lo facevano solo per ribadire la loro estraneità, completamente disinteressati a imparare qualcosa che tanto pensavano che non gli sarebbe servita.

Uno di loro si presentò una volta in terza media a 14 anni su un’Honda VT 500 Custom nera che ovviamente non avrebbe neanche potuto guidare ed era il sogno proibito di ogni ragazzo di Napoli. Lo ammazzarono in un regolamento di conti cinque anni dopo quando ne aveva appena 19. Non fece in tempo a godersi niente, ammesso che ci fosse qualcosa di cui godere nella sua vita.

Erano vittime, ma anche feroci carnefici. Vivevano in case mediamente peggiori delle nostre anche negli stessi quartieri popolari. Crescevano nella cultura della sopraffazione, con genitori che se le prendevano in giro poi a casa gli davano il resto perché così erano stati a loro volta educati. Istigati ad aggredire prima di essere aggrediti e perciò portati ad attaccare anche quando nessuno li minacciava. Retaggio di quella plebe crociana sottoproletaria che l’industrializzazione tardiva e troppo breve non aveva trasformato in classe operaia.

Cosa è cambiato a distanza di mezzo secolo? Al quel sottoproletariato irredento si è aggiunta nei decenni successivi la decomposizione sociale prodotta dalla deindustrializzazione. La dissoluzione di quella comunità che la classe operaia e le sue istituzioni avevano saputo almeno parzialmente creare nei quartieri popolari. Deindustrializzazione che ha significato anche progressiva perdita di peso politico dei partiti storici della sinistra che si sono trasformati, estinti o snaturati, deregulation del lavoro, forte ridimensionamento del welfare. Dinamiche globali che però nei territori del sottosviluppo hanno determinato effetti deflagranti.

Il problema della criminalità giovanile a Napoli non sta neanche nei numeri assoluti, ma in alcune caratteristiche peculiari che assume qui e nelle altre grandi città meridionali. Isaia Sales individua questi tratti in una marcata descolarizzazione, nella provenienza dai quartieri degradati non solo delle periferie ma anche del centro storico, ma soprattutto nelle relazioni delle bande minorili con la criminalità degli adulti. Le paranze dei bambini di cui ha parlato tra gli altri Roberto Saviano hanno accesso più facilmente che altrove alle armi da fuoco (non a caso Napoli ha il triste primato delle rapine) e tendono anche a sostituirsi in ruoli apicali alle vecchie leve delle organizzazioni criminali.

A Napoli, nell’ultimo anno scolastico, duemila bambini hanno smesso di andare a scuola. Dove sono? Cosa fanno? Il decreto approvato ieri dal governo Meloni, che punisce fino a due anni di carcere i genitori che non mandano i figli a scuola, non se lo chiede. Non si chiede perché al Vomero e all’Arenella si registrano appena 20 casi, mentre ce ne sono 392 nella periferia Est di Napoli, 359 a Secondigliano e 264 a Scampia, senza dimenticare i 301 delle periferie interne al centro storico.

È un caso che queste statistiche coincidono perfettamente con quelle della disoccupazione, con la mappa dell’ex Reddito di Cittadinanza, dei Neet che non studiano e non lavorano e del numero di diplomati e laureati? Se lo fosse, sarebbe una coincidenza davvero singolare, ma al governo poco importa indagare perché ai fini del consenso è più utile mostrare i Carabinieri col passamontagna e l’uniforme tattica che imbracciano fucili d’assalto come in una fiction di successo. Tanto un paio di giorni e le basi riapriranno lì o altrove perché i soldi della droga, come tutti gli altri, non puzzano per nessuno. Soprattutto quando riciclati finiscono ad alimentare la finanza e l’economia legale.

È anche una questione culturale, che non riguarda solo i film e le serie criminali, ma anche il mondo dei valori e degli stili di vita imposti dalla pubblicità, dagli influencer, dalle star della musica e dello sport, dall’agiografia dei ricchi imprenditori. La ricchezza è un valore assoluto della nostra società perché non c’è un pensiero critico che contesti la disuguaglianza.

In un contesto in cui la mobilità sociale è pressoché azzerata, il crimine diventa agli occhi di questi ragazzi senza capacità critica e filtri culturali l’unica strada percorribile per essere vincenti. Per pagare un tavolo anche 150mila euro, come è successo due mesi fa in un noto locale napoletano per il compleanno di un tizio di rispetto, senza che ce ne sia stata traccia sulla stampa cittadina. E fa niente che poi muoiono a vent’anni, o trascorrono buona parte della propria vita in galera. Anche questo diventa ai loro occhi preferibile se l’alternativa è il lavoro nero, le paghe da 100 o 150 euro a settimana che non entrano mai nel discorso astratto sulla redenzione di Napoli perché altrimenti costringerebbero a ridefinire lo stesso concetto di legalità.

Meglio sorvolare, si sarà detto chi continua a parlare di chiudere i locali della movida a mezzanotte, come se le pistole sparassero fino a una certa ora, senza chiedersi per esempio quanto guadagnano i ragazzi che lavorano in quei locali. Meglio metterla sul piano della lotta fra bene e male. Come entità astratte senza chiedersi cosa sono davvero il bene e il male e come si determinano, tanto i fatti e la realtà sono, come le notizie per il caporedattore di Giancarlo Siani in Fort Apasc, rotture ‘e cazzo.

Per impedirlo bisognerebbe rovesciare le nostre società come un guanto, assegnare priorità a valori desueti che se ne sono andati col Novecento, spazzati via dai vincitori della Storia. Non è in discussione quindi che accadrà ancora, bisogna solo chiedersi quando. Sperando che la prossima volta non sia a pochi mesi di distanza dall’orrendo omicidio di Giò Giò, un ragazzo che voleva solo vivere e suonare. Ostinato a restare nell’unica grande città d’Europa dove non esiste un’orchestra stabile.

Rosario Dello Iacovo
Author: Rosario Dello Iacovo
Napoletano, ha vissuto per oltre dieci anni a Londra e a lungo a Milano. Organizzatore di eventi, giornalista pubblicista, esperto di social media, autore di biografie musicali.

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