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Alla presenza del ministro della cultura Gennaro Sangiuliano e di rappresentanti delle istituzioni cittadine, si è svolta di recente la cerimonia con cui il Liceo Francesco Sbordone di Napoli, in collaborazione con l’Associazione Pietrasanta Polo Culturale ETS, ha dedicato la sua biblioteca alla memoria di due protagonisti della vita culturale e civile napoletana: l’avvocato Gerardo Marotta e il professor Raffaele Ajello.
Una bella e partecipata iniziativa che, se non vuole assumere solo un valore simbolico, deve incoraggiare gli allievi di quei due grandi maestri ad approfondire gli studi che meglio indicano l’intento della migliore cultura meridionale perseguito da Federico II in poi: quello di «ricomporre un popolo abbandonato e formarne una nazione».
Nel 1757, con questa frase Bernardo Tanucci, braccio destro di Carlo di Borbone, ormai vicino al suo trasferimento a Madrid (1759) quale re di Spagna, ed effettivo fondatore dell’ancora regnante dinastia, dedicò a lui il primo volume delle Antichità di Ercolano esposte, testi ricchi d’incisioni con le immagini degli oggetti via via ritrovati negli scavi. Dovunque in Europa la cultura s’interessò intensamente di quelle novità, che ebbero un prodigioso successo: i volumi andarono a ruba ed influirono palesemente sul gusto comune. Tutto questo c’interessa per due importanti ragioni. Il fenomeno dell’Illuminismo fu un vero e proprio empito dell’intera civiltà occidentale e fu il segno di un secolo in cui in tutto l’Occidente il progresso sociale si avviò verso traguardi rivoluzionari, che erano troppo precoci e che riuscirono estremamente radicali: perciò portarono ad enormi e duraturi disastri. Il pensiero italiano, in particolare il meridionale, aveva durante il ‘700 raggiunto una portentosa maturità e saggezza, collocandosi ai primi posti nel progresso generale, poiché aveva rapidamente rimediato ai suoi ritardi strutturali di durata ben più che millenaria. Genovesi, Tanucci, Dragonetti e molti altri, grazie al loro geniale empirismo, si resero conto che si stava preparando una reazione spaventosa, una catastrofe: si prodigarono a difendere la sostanza di quelle idee, ma anche a diffondere consigli di prudenza e condannarono recisamente le opposte faziosità, che sarebbero esplose nella rivoluzione francese.
Questo fu il segno che la civiltà aveva raggiunto traguardi epocali. La Scienza della legislazione di Filangieri divenne una delle opere più tradotte e diffuse della letteratura italiana (seconda solo alle opere di Machiavelli), e questo avrebbe dovuto inorgoglire il nostro Paese. Avvenne, invece, esattamente l’opposto. La famiglia di Filangieri, morto nel luglio 1788, ossia un anno prima dell’assalto alla Bastiglia, fu discreditata e quasi punita per aver dato lustro alla Patria comune. Ma questo fu solo l’inizio di un ben maggiore disastro. Presto esplosero le novità temute dal filosofo: dal 1789 al 1793, non solo la rivoluzione francese si abbandonò a stragi primitive e ne furono vittime autorità e regnanti, spesso innocenti, fino ad allora indicati come i modelli di una vita europea, ricca, giusta e progredita. Lo scandalo fu universale. L’intera civiltà occidentale parve impazzita. E ciò avvenne per due motivi, diversi ma coerenti: i ceti privilegiati di tutto il mondo si sentirono in grave pericolo e la paura li indusse a ricorrere a qualunque rimedio che tutelasse il loro benessere, ossia le loro rendite di posizioni, spesso parassitarie. Questo fu un fenomeno centrale non solo della storia moderna, ma dell’intera vicenda umana, perché ne dimostrò la labilità morale e mentale, molto grave, eppure ancor oggi tutt’altro che superata. Il mirabile progresso moderno fu nei decenni tra la fine del ‘700 ed il 1870 rapidamente disperso, fu inquinato, tradito dalla mania dell’imperialismo prussiano di umiliare la Francia, verso cui nutriva un complesso duplice (com’è spesso frequente) d’inferiorità empirica e di presunta superiorità metafisica, etnica e razziale. Ebbe inizio allora una fase cruciale di vendetta antifrancese, durata poi 75 anni, fino al 1945, impresa storica che si può definire come il “regresso”, non soltanto italiano, fenomeno che si potrebbe anche indicare come il ritorno alla più bieca e primitiva, ottusa inciviltà umana. Le vittime nel mondo, compresi gli Ebrei ed i morti per lo scoppio e per la radioattività delle bombe atomiche sono stati calcolati in sedici milioni.
E le notizie che ci giungono di recente dal conflitto in corso nella striscia di Gaza non sono più confortanti. Per non parlare della guerra russo-ucraina e di quanto subìto dai Curdi, popolo da molti decenni angariato e bistrattato, reo di aver combattuto i Talebani e l’Isis, stragisti in nome del loro “Assoluto”. Ancor oggi, insomma, la “Ragion di Stato” giustifica ogni infamia. Il ripetersi in tutto il Pianeta dell’irrazionalità e della disumanità brutale, dimostra che il tanto vantato progresso della specie umana riguarda soltanto la sua immagine ed un sottile strato epidermico. È una valutazione che ci riguarda, nel bene e nel male: ci fa capire perché l’Italia, tra tante arretratezze strutturali, possiede in modo meno superficiale il pregio di capire e di condividere le sofferenze dei popoli, una dote acquisita durante tanti secoli di umiliazioni subíte e di tentativi di squilibrare mentalmente i popoli che non erano in grado di difendersi. Ma ritorniamo ai tempi nostri. Prima che, come si prevedeva, scoppiasse la guerra del 1939-45, l’Italia, come fece la Spagna, si sarebbe potuta dichiarare quanto meno marginale rispetto a quell’assurda contesa, che non la riguardava minimamente. Quasi totalmente impreparata, aveva già partecipato alla prima guerra mondiale schierandosi da una parte, pur essendo alleata con l’opposto belligerante. In vista del secondo scontro finse di non sapere che era diretto a demolire l’intera civiltà moderna, eppure l’Italia ne era stata la culla e fino al 1793 parte prestigiosa. In questo modo il Paese confermò la fama d’inattendibilità e d’incoerenza. Queste palesi ambiguità dovrebbero essere indicate nei libri di scuola a futura memoria.
La seconda insipienza portò al collasso tutti i vantaggi conseguiti nel ‘700 e poi dall’Unificazione al 1945, e questo avvenne perché intanto in Germania aveva trionfato una barbarie, di cui poi si costatò che l’umanità non aveva mai conosciuto analoghi vertici di criminalità. Quel dramma aveva avuto inizio nel 1700, ed incrementò nel 1870, con il vittorioso assalto prussiano contro la Francia. Valga a questo proposito la testimonianza di Friedrich Nietzsche. Egli, nel 1888, in Ecce homo, libro consuntivo della sua vita (poi impazzì agli inizi dell’anno seguente e morì nel 1900) scrisse di essere «innamorato» della letteratura francese del ‘600, in particolare di Pascal, e dichiarò di vergognarsi profondamente di essere tedesco. Le pretese di primato di quel popolo stavano inquinando la vita nell’intero Pianeta, di cui sono ancora evidenti le profonde ferite strutturali e di cui in Italia non sono state sufficientemente analizzate e chiarite le cause, anche perché il nostro Paese, alleato dei criminali, aveva aderito in modo dissennato a tesi nettamente ostili anche alle sue origini latine e romane. Assurdità quasi puerili. Ma forse si può dire anche di più: è ancor oggi chiara, forte e persistente una dose troppo elevata d’inciviltà umana. Idealizzare in modo formalistico tutto ciò che avviene, al fine di non cambiare niente (questo è il nascosto fine dell’idealismo assoluto), significa rinunziare alle diagnosi, lacuna che rende impossibile aver chiarezza di quale potrebbe essere la cura. È ragionevole temere che oggi siano in queste condizioni di pericolo non soltanto l’Italia ma l’intero mondo civile.
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