Mercoledì, 13 Novembre 2024

Il Grande vuoto, ovvero la grande bellezza al Bellini

Trasformare il dolore in bellezza: si può davvero? È struggente, come l’ossessione per Shakespeare e Re Lear della sua protagonista, e scenicamente possente “Il Grande vuoto” il nuovo lavoro teatrale di Fabiana Iacozzilli, che solo teatro come il Bellini, aperto alle sfumature di senso dell’epoca contemporanea, poteva scegliere di portare in scena, sfidando qualsiasi cliché che oggigiorno vede il teatro come intrattenimento a tutti i costi, e rappresentandolo con successo di pubblico (l’ultima replica domenica 10 novembre).

Sarebbe riduttivo dire che la pièce parla solo di Alzheimer, la malattia evidente di cui scopriamo ben presto soffre la protagonista, una incredibile Giusi Merli (classe 1943, nota al grande pubblico per il ruolo della Santa ne “La grande bellezza” di Sorrentino). Il Grande vuoto è, piuttosto, la rappresentazione di un amore senza fine, che lega una famiglia dove la vicinanza si trasforma in distacco dal reale, in ossessione ripetuta di racconti, ricordi, momenti di vita vissuta.

Bellissima, innanzitutto, la coppia anziana che ancora litiga, fuma, si bacia e che apre lo spettacolo in una utilitaria piantata sul palcoscenico. Lì dentro lui (Ermanno De Biagi) si dissolve alla vista a un certo punto, diventa fumo, come fumosi, evanescenti sono i ricordi di lei, un’ex attrice, colpita da una malattia neurodegenerativa, presente a se stessa solo quando recita il monologo shakespeariano di Re Lear.

A prescindere se la narrazione della malattia e dei suoi effetti sia realistica o meno (solo chi ha avuto o ha un malato di Alzheimer in famiglia può saperlo, e i pareri in platea sembravano discordanti) ciò che colpisce è la straordinaria capacità della drammaturga Iacozzilli e della sua attrice, Giusi Merli, di rappresentare non la presenza ma l’assenza, il “grande vuoto” appunto, interiore, rispetto alla pienezza di oggetti e di piccoli movimenti, gesti, racconti quotidiani. Quelli dei due figli (Francesca FarcomeniPiero Lanzellotti) ma anche della badante  (Mona Abokhatwa per la prima volta in scena), che si muove meccanicamente, l’unica che non cerca un contatto emotivo laddove sa di non poterlo avere, pur entrando in empatia con il personaggio malato.

E se la ripetitività crea attesa, il gioco delle parti, inevitabilmente, provoca immedesimazione: così ci si ritrova, insieme con gli attori che a un certo punto si calano nel gioco della memoria ossessivamente ancorata al mestiere di attrice della protagonista, a riempire emotivamente il vuoto di senso causato dalla malattia.

È una rappresentazione straordinaria, prova di grande bravura di tutto il cast e con una messa in scena indovinata dove il teatro a un certo punto cede il passo alle riprese video in diretta: a raccontare la solitudine di chi vive senza consapevolezza di sé, ma mai l’abbandono.

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Ida Palisi
Author: Ida Palisi
Giornalista professionista, esperta di comunicazione sociale, dirige l’Ufficio Comunicazione Gesco. Collabora con il Corriere del Mezzogiorno per le pagine della Cultura.

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