Martina, le parole che uccidono due volte

Quando si parla di violenza di genere, di femminicidio, non basta denunciare l’atto estremo. Bisogna fare attenzione anche ai dettagli, alle parole, ai racconti, alla comunicazione che costruiamo intorno a quei corpi e a quelle vite spezzate.
Perché la cultura patriarcale non si manifesta solo nei gesti estremi, ma anche – e soprattutto – nei dettagli del linguaggio e nella narrazione.
Il femminicidio di Martina Carbonaro è l’ennesima ferita, ma anche l’ennesima occasione mancata per cambiare davvero registro.
È doloroso, ma credo sia importante dirlo: anche chi prova a combattere quella cultura malata, a volte la perpetua, senza accorgersene.
Condividere compulsivamente i selfie di Martina che sorride o ammicca allo smartphone non è un modo per renderle giustizia: è un gesto che rischia di sessualizzare il suo corpo di bambina, anche dopo la morte. È un modo che, seppur involontario, sovrappone il corpo di una donna all’immagine di una minore, rendendo la narrazione tossica e ambigua. Un femminicidio non è una storia da illustrare con selfie a festa.
È piuttosto un grido da ascoltare. In silenzio. Con rispetto.
Così come è pericolosa la normalizzazione del termine "fidanzato" a 14 anni. Parole come questa – usate dai media, dai titoli, dalle didascalie – creano un clima che rende "normale" ciò che normale non è. Perché un fidanzamento a quell’età non può essere trattato come una semplice storia d’amore.
Farlo significa banalizzare, e a volte legittimare, relazioni che spesso nascondono dinamiche di potere, controllo, possesso. E questo è quanto di più diseducativo possiamo offrire alle nuove generazioni, che sono i primi fruitori dei messaggi che lanciamo – spesso ingenuamente – sui social.
Anche nel linguaggio del dolore, nei giorni del lutto, emergono automatismi sessisti: "Povera mamma", si dice. E il padre? Dove stanno i papà?
I figli non sono solo della madre. Ma la retorica comune, che associa la donna al ruolo esclusivo di madre-incubatrice, relega l’uomo sullo sfondo e rafforza quella visione di donna come creatura destinata solo a generare e custodire. Anche questa è una narrazione che alimenta stereotipi: stereotipi da eliminare, perché sono il terreno su cui germogliano certe violenze.
E poi c’è l’assalto mediatico al dolore. I microfoni puntati, le telecamere accese, le parole dei genitori in lacrime rilanciate senza filtro, anche quando – comprensibilmente – non sono lucide, né consapevoli.
Buttiamo sui social dichiarazioni sgrammaticate, espressioni confuse, spostando l’attenzione pubblica su elementi che nulla hanno a che fare con il problema vero.
“Hai visto la mamma? La zia? Hai visto come parlava?”
Una pornografia del dolore, una spettacolarizzazione del lutto che non aiuta a pensare. Che non costruisce empatia, ma spettacolo. Che ci allontana dalla realtà, invece di avvicinarci.
In quei momenti, chi racconta ha una responsabilità enorme: non tutto va trasmesso. Non tutto va mostrato. Perché il dolore non giustifica tutto, e non tutto il dolore diventa automaticamente verità. Serve cura. Serve mediazione. Serve rispetto.
Il sessismo, la violenza simbolica, la cultura patriarcale non si annidano solo nei gesti criminali. Si insinuano nei titoli, nei commenti, nelle foto che postiamo, nelle parole apparentemente innocue.
Sta a noi, ogni giorno, esercitare uno sguardo critico. Sta a noi imparare a parlare, scrivere, rappresentare in modo nuovo. A scovare la reticenza, il seme della violenza.
È un ragionamento che rivolgo non solo a chi legge, ma che faccio insieme a voi prima di tutto a me stesso. Perché nessuno è immune da questo linguaggio tossico.
Ma possiamo – dobbiamo – pensarci.
Per disintossicarci. In fretta.
Per Martina, per tutti.