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“Una piccola autobiografia malinconica in cui racconto i miei anni Settanta. Gli anni della democrazia operaia, dei comitati di quartiere, delle lotte studentesche, del referendum sul divorzio, della militanza nei gruppi della nuova sinistra”. Così Giovanni Paonessa, classe 1955, presenta “Una Rosa nel cuore”, il libro che racchiude i ricordi, le letture, le lotte e le sconfitte di un giovane “apprendista” rivoluzionario, fra Mercato San Severino, Salerno e Napoli.
Pagine in cui la vita personale dell’autore si integra con quello che accade in un periodo della storia politica e sociale italiana che va dal 1968 al 1979.
Un viaggio nel tempo in cui è accompagnato da Rosa Luxemburg. Perché proprio lei?
Ebbi il mio primo “incontro” con Rosa Luxemburg da adolescente, nella biblioteca di Mercato San Severino, un piccolo paese in provincia di Salerno dove mio padre faceva il capostazione e dove ho vissuto con la mia famiglia dalla seconda elementare fino al quarto anno del liceo che, invece, frequentavo a Salerno. Fra i libri portati a casa, l’antologia degli scritti di Rosa Luxemburg curata da Lelio Basso. Una rivoluzionaria di inizio secolo il cui pensiero eretico fu anche all’origine dell’intera proposta politica del gruppo del Manifesto, al quale avevo aderito di istinto, senza alcuna preventiva analisi politico-ideologica. Un pensiero diventato, in seguito, un riferimento culturale e politico per le mie scelte di vita.
Una scelta politica che si è rafforzata durante gli anni del liceo.
Nel 1968, mi presentai a Salerno con i pantaloni all’inglese, quelli lunghi fino al ginocchio, cuciti da mia madre per il mio primo giorno di liceo. Inutile dire che dopo aver scoperto l’abbigliamento dei miei compagni, la costrinsi a comprarmi un paio di pantaloni lunghi. Ma la mia prima vera conquista furono un paio di blue-jeans comprati usati al mercato.
Erano anni intensi. Partecipavo alle assemblee, alle manifestazioni studentesche ero incuriosito da quelli che venivano chiamati i gruppi extraparlamentari. Mi avvicinai a Il manifesto che, prima con la rivista mensile (è tornato di attualità l’editoriale del 1969 “Praga è sola”) e, poi, dal 1971, con la pubblicazione del quotidiano avviò l’aggregazione di chi, come me, era alla ricerca di un modo originale e attuale di definirsi comunisti.
Nel libro scrive che l’estate del 1971 cambiò profondamente la sua vita. Perché?
Con alcuni frequentatori abituali del Centro Servizi Culturali decidemmo di darci al teatro. Un teatro di strada per mettere in scena quello che accadeva sotto i nostri occhi. Da pochi mesi, la più grande azienda conserviera del territorio era fallita per una manovra del proprietario che in questo modo si era arricchito ancora di più. Ma la rappresentazione non andò mai in scena. Avevamo maturato la decisione di trasformarci in Collettivo operai-studenti ed elaborammo il nostro primo volantino da distribuire davanti alle fabbriche conserviere. Accompagnammo il nostro invito alla lotta con uno specchietto riepilogativo delle retribuzioni orarie spettanti sulla base dei contratti collettivi nazionali di lavoro e ci demmo appuntamento all’uscita di una delle fabbriche del paese. Avevamo già immaginato una mobilitazione popolare, accesa grazie ai nostri volantini, ma ciò non accadde. Anzi, le operaie non si fermavano, acceleravano il passo per infilarsi nei pullmini dei caporali.
In seguito, proprio la lettura dei testi di Rosa Luxemburg mi avrebbe fatto capire che la rivoluzione non può essere calata dall’alto, è un processo che va costruito anche attraverso le sconfitte ma, soprattutto, non può fare a meno del coinvolgimento degli operai, si fonda sulla democrazia operaia.
Eppure l’appuntamento con quelle lavoratrici sfruttate dai padroni e dai caporali si sarebbe soltanto spostato di qualche anno poiché, alla fine del mio percorso politico, sociale e di studi, sarei ritornato proprio dove avevo mosso i miei primi passi.
L’anno successivo, un’altra amara sconfitta.
Sì, ma soltanto la prima di tante altre. Nel 1972 in Italia si votò per le elezioni politiche. Non potevo ancora votare, ma mi attivai per la campagna elettorale, con le mani sporche di vernice e inchiostro e i capelli pieni di colla per attaccare sui muri manifesti fai da te. Era stata presentata una lista del Manifesto alle elezioni per la Camera dei Deputati. Una decisione presa per provare a dare voce e rappresentanza, anche in Parlamento, alle centinaia di migliaia di persone, studenti e lavoratori, che continuavano a riempire le piazze. Prendemmo oltre 50 voti a Mercato San Severino, ma soltanto 224.313 in tutta Italia. Avevo imparato che non erano possibili scorciatoie, né elettorali né, come sarebbe drammaticamente avvenuto negli anni successivi, di altra natura.
Poi il ritorno a Napoli. Che cosa ricorda di quegli anni?
Sempre nel 1972 sono ritornato nel quartiere in cui ero nato, il Rione Luzzatti a Poggioreale. Con altri giovani costituimmo un Comitato di quartiere molto attivo sui problemi del territorio. Di quegli anni ricordo, in particolare, l’autoriduzione delle bollette, le manifestazioni dei consigli di fabbrica contro il carovita e per il rinnovo dei contratti e l’occupazione di una fabbrica tessile che aveva licenziato le operaie. Si andava ad aggiungere un altro tassello rispetto alle scelte che avrei fatto in seguito. Ma l’evento che davvero ci cambiò profondamente fu il referendum sul divorzio del 1974 perché, irruppero sulla scena le donne, stava prendendo forma il movimento femminista, invitandoci a riflettere profondamente sulla contraddizione uomo-donna, sul patriarcato, sulla nostra sessualità.
Nel libro dedica uno spazio significativo all’esperienza della facoltà di Sociologia
Avevo deciso che avrei voluto studiare sociologia ancora prima di aver capito bene di cosa si trattasse. Sono stati anni estremamente formativi. Abbiamo studiato tanto, cercando un filo rosso tra la lettura dei classici, la ricerca e le lotte operaie e studentesche di quegli anni. Ho partecipato a diverse inchieste “sul campo” ed ho avuto modo di approfondire i temi a me cari della classe operaia marginale, dei consigli di fabbrica e della democrazia operaia, della stratificazione sociale in una città difficile e problematica come Napoli. La Napoli del colera ma anche la Napoli del primo sindaco comunista e della Festa nazionale dell’Unità del 1976.
Poi, racconta del movimento del Settantasette e della decisione di fondare una cooperativa giovanile
Pochi ricordano che il movimento del Settantasette partì da Napoli, su rivendicazioni legate strettamente alle prospettive di lavoro per i “disoccupati intellettuali”. Ma, ben presto, il movimento prese un’altra strada, una vera e propria deriva: provo a raccontarlo con amarezza, con la consapevolezza di essere stati sconfitti. Dopo i fatti di marzo 1977 facemmo un passo di lato. Promuovemmo la Cooperativa “Courage”, un punto di incontro, di aggregazione giovanile, nel centro storico della città e costruimmo, dentro la Lega delle Cooperative, un coordinamento con altre cooperative giovanili che stavano nascendo in città.
Nel libro racconto in prima persona di quel travaglio, di un percorso che per me si è definitivamente interrotto con la partecipazione ai funerali, a Genova, di Guido Rossa, delegato sindacale dell’Italsider ucciso dalle brigate rosse e con la decisione di iniziare a collaborare con il sindacato degli alimentaristi nell’agro nocerino-sarnese.
Che cosa resta oggi di quell’apprendista rivoluzionario?
Oggi restano i ricordi, i rimpianti, la rabbia (sì ancora la rabbia) per un’innocenza che ci è stata strappata dai colpi di P38 e dalle trame dei servizi segreti, il terrorismo, i tanti misteri ancora irrisolti del nostro Paese. Volevamo fare la rivoluzione ma non eravamo una generazione violenta. Ci interrogavamo – esattamente come Rosa Luxemburg – su come evitare gli errori della rivoluzione bolscevica, come esaltare e rafforzare la democrazia. Come conciliare la nostra voglia di cambiamento della società con i nostri bisogni e le nostre aspettative di una vita migliore, di “una dose di felicità” come scriveva Rosa Luxemburg in una sua lettera che ho utilizzato per introdurre il libro.
Ho una voglia maledetta di essere felice e sono pronta, giorno dopo giorno, a combattere per la mia “dose di felicità” con l’ostinazione di un mulo.
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